Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario Dal vangelo secondo Marco (Mc 12, 38-44)
In quel tempo, Gesù diceva alla folla mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave». E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». La speranza “cristiana” Nelle tre domeniche precedenti la pedagogia liturgica ci ha proposto di riflettere sui “sensi spirituali” che Dio ci da come regalo per poter vivere da cristiani. Come i “sensi naturali” del corpo, la vista, l’udito, il tatto, ecc., ci sono dati per vivere da persone normali, complete, così, nelle due domeniche precedenti abbiamo riflettuto sulla “fede” e sull’ “amore cristiano”, capacità speciali regalateci da Dio nel Battesimo, per poter vivere cristianamente. Oggi, trentaduesima domenica del Tempo Ordinario dell’anno B, ci tocca meditare sul terzo “senso” fondamentale, la “speranza”. Tecnicamente questi tre elementi, fede speranza e carità, sono chiamate “virtù teologali” perché sono delle capacità, delle potenze, delle forze, che si riferiscono in forma speciale a Dio. Le letture della liturgia della Parola che abbiamo ascoltato oggi non parlano esplicitamente di questo tema della speranza, ma la prima lettura, tratta dal libro dei Re, e la terza, ossia il Vangelo, sollecitano la nostra attenzione concentrandola su due icone femminili, due vedove, una straniera di Zarepta e una ebrea di Gerusalemme. La “speranza” della quale vogliamo parlare non è nominata espressamente ma è facilmente deducibile dagli atteggiamenti di questi due personaggi. Alla prima vedova, in una durissima carestia , erano rimasti un pugno di farina nella madia, un po’ di olio nell’orcio e un figlio da sfamare. Stava per cuocere un’ ultima focaccia per un’ultimo pasto con il suo piccolo, per poi aspettare la morte. Ed ecco che il profeta Elia le chiede di sfamare anche lui. Di fronte alle sue spiegazioni circa la situazione disperata che stava vivendo, il profeta la esorta ad accettare il suo invito, con la promessa da parte sua, che rappresentava Dio, che l’olio e la farina non sarebbero mancati in quella casa fino al ritorno dei bei tempi dell’abbondanza. Invece, la seconda vedova del vangelo, osservata da Gesù e dai suoi discepoli mentre depositava nel tesoro del tempio i suoi pochi spiccioli che le servivano per sopravvivere, ricevette da Gesù, rivolto ai suoi discepoli, un apprezzamento notevole: “Essa ha dato più di tutti, perché ha dato ciò che le era necessario per vivere”. Ecco! Fratelli e sorelle, due casi paralleli ma con identico dinamismo interno: la speranza biblica. Gli elementi della speranza, comuni nei due casi che abbiamo considerato, ci sono dati dalla descrizione dei fatti. Vediamoli: anzitutto sono due donne, due vedove, e ambedue in condizioni di grande povertà, ambedue sono interpellate da Dio, l’una tramite il profeta Elia, l’altra tramite la Thorà, la legge, che ordinava a tutti di aiutare per il mantenimento del tempio. Ambedue sono invitate anche a un atto di generosità estrema, in una situazione di disagio, e ambedue lo fanno; ma mosse da che cosa? Ecco qui il punto di riflessione: le due donne sono mosse a questo atto di coraggio, fiduciose nella promessa che Dio, attraverso il profeta e attraverso la legge, dice di non abbandonare chi lo invoca, sperando sempre in una situazione futura di cambio, basata sulla sicurezza che la parola di Dio da. Possiamo adesso delineare una sorta di definizione della “speranza” che è stata presentata in una relazione fatta al “Quarto Convegno della Chiesa che è in Italia”, a Verona, il mese scorso, il cui titolo era: “Testimoni nel Cristo risorto, speranza del mondo”. Potremmo descrivere così la speranza cristiana, come la virtù infusa che Dio ci da nel Battesimo e che consiste nella capacità di decidere con libertà e coraggio, di scommettere sul futuro al di là delle possibilità e dei limiti umani, impegnandosi in base alla fiducia in una presenza sicura, che ci accompagna e ci sostiene: la presenza di Dio nella storia. Questa presenza vicina è resa sicura per noi nel Cristo risorto. Ecco ciò che noi dobbiamo vivere come speranza cristiana. E ancora, l’attuale impegno cristiano della speranza ci viene pure indicato dal Concilio Vaticano II, in un suo documento, dove dice: “Le gioie , le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi sono pure le gioie e le speranze, le angosce le tristezze dei discepoli di Cristo, però la speranza dei discepoli di Cristo si basa sul Cristo risorto”(cfr. Vat.II G.5 n.1). Ecco qui la differenza, parlare oggi di speranza è molto difficile perché il mondo ha perduto l’orizzonte di dove finiscono le cose. Ai tempi dei totalitarismi, marxismo, fascismo e nazionalismo, gli uomini si erano inventati un orizzonte storico, bisognava arrivare a formare l’uomo sovietico, l’uomo “collettivizzato”, bisognava arrivare a potenziare il “super uomo”ariano, perchè aiutasse a costruire un mondo nuovo dominato da esso. E’ entrata l’idea che l’uomo va in una certa direzione e allora il risultato è che tutto si appiattisce su ciò che è importante qui e adesso. Domani non sappiamo verso dove andremo. Poi c’è la paura della morte, che elimina il nostro futuro, proprio in noi uomini, che sentiamo il bisogno di infinito! Fratelli e sorelle, riflettendo un po’ sulla nostra vita pratica, ecco allora che essere cristiani oggi, per me, in questo mondo disperato, che non ha orizzonti nè futuro, significa essere uomini che non solo parlano di speranza ma che vivono la speranza, come è stato anche detto nel Convegno di Verona : non basta avere un vago ottimismo circa il futuro, pensando che forse, possibilmente, le cose potranno migliorare. No! Noi cristiani siamo sicuri che Dio realizzerà il suo Regno, ecco la nostra speranza! Il suo piano di salvezza ha alla base il Figlio del Padre, fattosi uomo, che si chiama Gesù, il Messia, che ci ha salvati con la sua morte, che ci ha aperto un orizzonte infinito, ci ha dato un orizzonte vero, definitivo e pieno della vita eterna nella casa del Padre. Per questo ha mandato anche l’infinita potenza dell’amore divino, lo Spirito Santo, che ci guida e ci porta verso la realizzazione del Regno! Fratelli e sorelle! La Trinità intera si è impegnata in questo campo. Come può fallire? Certo che no! Ma questa meravigliosa avventura alla quale siamo chiamati non ci viene imposta; siamo chiamati, invitati con insistenza, certo, a partecipare, però liberamente! A noi tocca dire di sì! Se il piano di salvezza non funzionerà, a mio livello soggettivo e personale, non sarà per mancanza di volontà divina, perché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e li inserisce tutti nel suo progetto di salvezza, ma sarà responsabilità esclusivamente personale di ognuno di noi se il piano fallisce. Fratelli e sorelle, come è possibile che per qualche capriccio della breve durata della vita umana, di questa povera e corta esistenza, perdiamo per sempre la felicità piena e totale, la realizzazione completa della nostra persona? E’ mai possibile dire di no a Dio?Così sia
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