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34 Domenica 13^ T.Ordinario (I beni ; tra la vita e la morte) rif. al 28/06/09 PDF Stampa E-mail

                  Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario

 Dal vangelo secondo Marco (Mc 5, 21-43)

[In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva». Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.]
Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. 
Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male». 
Mentre ancora parlava, [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!». E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strèpito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: «Talità  kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.]
 

                                   I beni; tra la vita e la morte  

La Sacra Scrittura che viene proposta alla nostra meditazione, oggi, è un po’strana, nel senso che le tre letture ci presentano due tematiche che tra di loro non hanno niente a che vedere, almeno a prima vista. Il primo tema, quello della morte e della vita, combacia perfettamente nella prima lettura e nel vangelo. Nella seconda lettura invece si tocca il tema dell’uguaglianza pratica come risultato della compartecipazione dei beni, fatta specialmente dai fratelli cristiani di Corinto per la comunità cristiana di Gerusalemme. La tentazione che ho avuto è stata quella di scegliere uno dei due, lasciando cadere l’altro, però pensandoci meglio, ho visto che entrambi sono di un’importanza capitale per la nostra vita quotidiana e ho deciso diversamente. Dopo aver pregato e riflettuto mi sono deciso a toccarli ambedue perché il corretto uso dei beni si colloca tra la nostra nascita e la nostra morte. Anche se nel tempo di un’omelia non possono essere approfondite in forma corretta, potremmo almeno esporre alcune idee principali. Prego perciò lo Spirito Santo che pianti lui stesso i piccoli semi di questa riflessione e li faccia crescere e maturare in tutti noi per una vita sempre più genuinamente cristiana.Cominciamo dal tema “l’uguaglianza dei beni”, che ci viene indicata nella seconda lettura, interposta tra il concetto che da Dio viene solo la vita nella prima lettura e la rianimazione della figlia di Giairo nel vangelo. Fin dall’inizio dell’espansione della dottrina del messaggio di Gesù, le primitive comunità cristiane si preoccupavano di sostenere economicamente le persone più bisognose. Ricordiamo le vedove e gli orfani; ricordiamo anche negli Atti degli Apostoli l’istituzione dei diaconi che sostituirono i primi apostoli nel servizio delle mense che le comunità avevano organizzato per i poveri, specialmente orfani e vedove. Ricordiamo che Paolo, dopo la sua conversione, parecchi anni dopo aver iniziato la sua missione tra i non ebrei, andò a Gerusalemme per rendere conto del suo modo di fare il missionario tra i pagani greci, romani e di altre etnìe e rese conto a coloro che erano chiamati, allora, le colonne della Chiesa: Cefa (Pietro), Giacomo e Giovanni. Ebbene, dopo aver spiegato e ricevuto la loro approvazione, si diedero la mano in segno di comunione e di approvazione. Però Paolo fu pregato, insieme ai suoi compagni, di ricordarsi specialmente dei poveri , cosa della quale dice: “Mi sono sempre preoccupato con molta attenzione”(cfr. Gal.2,10). Nella seconda lettura di oggi, Paolo ricorda ai cristiani di Corinto di fare la colletta per quelli di Gerusalemme. Corinto era un porto della Grecia molto importante nel tempo del periodo romano perché in quel porto si concentravano tutti i movimenti commerciali che dall’Asia, attraverso la Grecia, arrivavano al canale di Corinto e da questo le navi con le derrate e le ricchezze dell’Asia e dell’Arabia erano trasportate ai porti italiani e poi a Roma, il centro principale dell’impero. Lì, a Corinto, evidentemente il commercio era florido, e perciò anche i cristiani di quella zona non erano molto poveri, anzi erano piuttosto benestanti; ecco perché è lì che Paolo chiede un aiuto per la povera comunità di Gerusalemme, la quale, essendo costituita da ebrei, dai loro concittadini era considerata eretica poiché seguiva il Cristo. Considerata di seconda categoria, da parte dell’ambiente ebraico le venivano impedite le possibilità di crescita. Era una comunità molto povera. Però in questa lettera, soprattutto nel brano che abbiamo analizzato questa mattina, Paolo precisa molto chiaramente l’obiettivo che è un impostazione generale e dice: “Non si tratta di mettere voi nelle ristrettezze economiche ma di fare una specie di uguaglianza. Ora tocca a voi aiutare quelli che forse domani aiuteranno voi a supplire l’indigenza”(cfr. 2 Cor. 8,13-14). E’ un problema di supplenza dell’indigenza dei fratelli. Fratelli e sorelle! A quei tempi le comunità cristiane erano piccole e si poteva fare una distribuzione anche dei beni materiali in quella maniera, però anche allora, ma specialmente adesso, ottenere l’uguaglianza perfetta era assolutamente irraggiungibile tra persone diverse che hanno un rapporto diverso nei confronti dei beni, un concetto diverso di temperanza, e di uso dei beni. Ma questo fatto ci mette di fronte a un problema molto attuale anche per noi: il cristiano non può, se vuole essere veramente tale, accettare e sopportare la disuguaglianza abissale nell’uso dei beni materiali che sono a disposizione di tutti, in questo mondo contemporaneo in cui il concetto di mercato, di globalizzazione, la fanno da padroni creando enormi ingiustizie nei confronti di chi ha di meno, in modo tale che chi ha di più si arricchisce sempre più e chi ha di meno avrà sempre di meno. Fratelli e sorelle, qui il cristiano deve partire da principi fondamentali; Paolo, in una delle sue lettere, dice: “Perchè ti vanaglori di cose che hai ricevuto, che non sono tua proprietà, ti sono state date in amministrazione, delle quali il Signore ti chiederà il rendiconto”(cfr. 1 Cor. 4,7; Matt. 25, 14-30). E si parla non solo di cose materiali, ma anche intellettuali: capacità organizzative, caratteriali  che sono state date per il bene di tutti, come dice San Tommaso d’Aquino: “I doni sono stati dati per il bene della comunità”. Ricordate l’episodio della parabola dei talenti, in cui quel poverino aveva sotterrato il suo talento e il Signore lo rimprovera per non averlo fatto fruttare: proprio questo, infatti, vuole da noi il Signore, che facciamo fruttare tutte le nostre qualità, intellettuali, morali, di organizzazione, di produzione, per il bene comune perché tutto ci è stato dato perché lo amministrassimo in funzione del bene di tutti! Questo è il concetto cristiano che poi deve essere applicato nelle forme moderne possibili. Però sono queste le cose fondamentali da tenere sempre presenti. Un altro monito importante di Paolo è: “Quelli che hanno qualcosa, in questo mondo, ne usino come se non ne avessero”(cfr. 1 Cor. 7, 29-31). Non siamo, dunque, proprietari, ma amministratori, non sono io il padrone, ma Dio che mi ha dato in gestione tutto ciò che ho, anche se fossero miliardi, me li ha dati in gestione per il bene di tutti i fratelli. Questa è la linea nell’uguaglianza che noi dobbiamo costruire come cristiani. Passiamo ora al secondo tema: “la morte e la vita”. Vediamo chiaramente che nel vangelo il Signore Gesù ridà la vita a una fanciulla che era morta in realtà, anche se Lui dice che dormiva, e nel frattempo succede che ridà la vitalità a una signora che da vari anni era malata. Essa aveva speso tutte le sue sostanze con i medici senza ottenere nessun miglioramento, però pensò che se avesse toccato anche solo l’orlo del mantello di Gesù sarebbe stata salva, e lo fece. Il Signore le disse: “La tua fede ti ha salvata”. Insomma vediamo il Cristo che ridà la vitalità e ridà la vita. Ecco il tema sul quale la liturgia pedagogicamente vuole che noi riflettiamo. Nella prima lettura, presa dal libro della Sapienza, lo scrittore ispirato da Dio ci dice chiaramente una frase sulla quale potrebbe sembrare inutile insistere: “Dio non ha creato la morte, Dio ha creato tutto per la vita, perché viva ed esista vitalmente”(cfr. Sap. 1,13-14). Vorrei ricordare un fatto successomi tantissimi anni fa nella sacrestia di questa stessa chiesa, nella stessa domenica in cui dissi le stesse parole che sto dicendo adesso. Un laico che serviva messa mi si avvicina e mi dice: “Ma cosa ha detto, Don Nicola, che Dio non ha creato la morte? Come mai?”. E io gli risposi che lo dice la Sacra Scrittura(cfr. Sap. 1,13-14), che Dio è solo amore, infinito amore(cfr. 1 Giov. 4,8), solo infinita e definitiva positività. Perciò tutto ciò che è creato da Dio, che è generato da Dio, è solamente positività e questo si dimostra nella vita: Dio non può creare una cosa che non è, la morte è non-vita, non è qualcosa di positivo, è una negatività. Ecco allora che vale la pena di insistere su questo concetto. Molti di noi hanno ancora un concetto semipagano di Dio, e del bene e del male: un dio della vita e un dio della morte, l’uno combatte l’altro. Siamo in pieno manicheismo. Non è Dio che ha creato la morte, siamo stati noi, la primitiva comunità umana. Nella creazione divina, perfetta nel suo genere, ogni elemento di quella creazione, per piccolo che fosse, era ordinato, magnificamente bene, al bene comune di tutto il sistema. Alla cima di detto sistema  Dio aveva posto l’uomo, responsabilizzandolo, e gli aveva sottoposto il mondo intero, dicendo: “Coltivatelo, moltiplicatevi, riempitelo di persone”. Gli aveva dato la possibilità di procreare quasi come un con-creatore, di fare le sue veci, senza difficoltà, senza dover lavorare, senza ammalarsi perché i microrganismi avevano un loro ruolo positivo in tutto il sistema e non attaccavano gli organismi superiori per deteriorarli o portarli verso la morte. L’uomo aveva tutto questo ed era agganciato a Dio. Però nella sua enorme superbia fece uno sbaglio madornale pensando di essere tanto forte e potente da non aver più bisogno di Dio. Si sganciò da Lui, si sganciò dalla fonte della vita ed entrò evidentemente nella non-vita, che si chiama morte. Ecco da dove viene la morte, una decisione dell’uomo che passò dal flusso, dal cono di luce, di amore e di vita di Dio, alla zona di “non-luce”(tenebre), di “non-amore”(odio), della “non-vita”(morte).  Fu una scelta volontaria e libera del nucleo iniziale dell’umanità.Ecco qui il concetto di morte e il concetto di vita che dobbiamo perciò tenere ben presente. Come mai noi poveri uomini, anche se abbiamo visto tanta gente morire, se pensiamo alla nostra morte ci da fastidio? Questo succede perchè nella creazione Dio ci ha dato l’imprinting , il marchio per cui noi siamo fatti per vivere ed è duro il dover sopportare il castigo della morte. I nostri progenitori ci hanno “sbattuti fuori dal cono luminoso della vita di Dio”, se lo vogliamo chiamare castigo, anche se Dio non ha mai voluto ciò, tant’è che ha mandato suo Figlio a farsi uomo perché con la natura umana potesse morire e con la sua potenzialità divina potesse risorgere, e così distruggere la morte. E’ vero che la morte fisiologica ci sarà sempre fino alla fine dei tempi, però noi non cadiamo fatalmente nel buco nero definitivo, senza la possibilità di felicità. Il Signore Gesù, con la sua morte ha distrutto la morte, con la sua Risurrezione ha aperto la porta immensa verso la Vita definitiva, piena e totale, che ci spetta. Fratelli e sorelle! Ecco qui allora il concetto chiaro che dobbiamo avere della morte: è, sì, la porta che si chiude su questa povera vita umana ma è un portone che si spalanca sulla luce infinita di Dio. Vediamo dunque cosa possiamo trarre da queste riflessioni, se questo ci aiuta a impostare un po’ meglio la nostra esistenza. La morte è dura, però ci aspetta l’abbraccio del Padre che vuole farci entrare nella sua casa, per vivere con Lui felici per sempre.Così sia. 

Ultimo aggiornamento ( venerd́ 26 giugno 2009 )
 
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